Ovvero, perché le statue classiche sono così… da urlo!
di Beatrice Crescentini
L’arte classica è una gran noia: vista, rivista e stravista. Un po’ come le vecchie storie che raccontano i nonni: ascoltate, riascoltate e stra-ascoltate. Peccato però che anche quando pensiamo che ormai abbiano detto tutto, ecco che ci stupiscono ancora. Ieri, oggi e domani.
A pensarci bene, se per centinaia di anni ogni genere di artista si è impegnato a realizzare “altro” rispetto alle creazioni di questi grandi maestri del passato, forse non tutto è da buttare. Forse, se potessimo fermarci appena un attimo davanti alle loro opere, senza guardarle solo come la noia delle lezioni in classe, od oggetti polverosi esposti nei musei, possiamo arrivare a vedere il genio dietro l’opera. Dopo tutto, se tali oggetti sono considerati di valore inestimabile, un motivo ci dovrà pur essere! Insomma, l’arte classica…
Non vi tediamo oltre, non abbiate paura: questo mese non abbiamo intenzione di fare un trattato sulla magnificenza dell’arte classica e sul perché sia così importante per lo sviluppo artistico dei secoli successivi. Vi vogliamo parlare di un aspetto molto più “profano”: avete mai fatto caso che i soggetti rappresentati abbiano tutti corpi da urlo?
La ricerca dell’armonia e del realismo
Ci fu un tempo in cui rappresentare un uomo voleva dire rappresentare l’idea di uomo. Lo stesso valeva per ogni soggetto che si intendeva disegnare, scolpire, ricopiare. Poco importa se le proporzioni non fossero quelle corrette, quelle vere.
Poi, un po’ oggi e un po’ domani, cambiò la consapevolezza del mondo: iniziarono i primi pensatori a domandarsi “Ma perché?”; poi agli artisti non bastò più rappresentare “l’idea”, ma volevano la realtà del movimento, delle espressioni, dei soggetti. Certo, per arrivare a raffigurare anche i difetti troppo ce ne vorrà, però intanto si iniziò a pensare a una realizzazione di opere “idealmente reali” prendendo il meglio da ciò che vedevano intorno a sé. Dopo tutto, se ciò che è bello è anche buono (da cui l’espressione kalokagathìa che, no, non è una brutta parola, ma è la traduzione proprio di “bello e buono”) è facile capire perché gli uomini e le donne, siano essi dei, semidei o semplici umani, erano sempre rappresentati al meglio delle loro essenze.
Dunque, da un lato ci troviamo con un vecchio concetto di arte che raffigura il mondo come “concetto” dove tutti gli uomini sono pressoché uguali a se stessi, le donne anche, come pure le canne di papiro (considerate a tal proposito l’arte dell’Antico Egitto, per capirci), dall’altro gli antichi greci iniziano a guardare di più all’individuo, raffigurando l’uomo, la donna e la canna di papiro nelle loro caratteristiche che li rendono riconoscibili rispetto agli altri, però sempre al massimo delle loro potenzialità fisiche.
Il Canone di Policleto, ovvero il trattato perduto delle proporzioni dell’anatomia umana
Ad un certo punto, intorno alla metà del V secolo a.C., un tale di nome Policleto, si mise in testa di diventare uno dei massimi esponenti della scultura greca del periodo classico. Questo geniaccio si era messo in testa di far muovere le statue, pur rimanendo ferme sul posto. “Caratteristica sua è di aver inventato che le statue insistessero su una sola gamba”, così ne parla Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”.
Ma cosa vuol dire “cercare la perfezione” per un antico greco? L’armonia, il bilanciamento, la matematica erano tutti concetti estremamente preziosi per l’uomo di allora: l’armonia è il bilanciamento delle varie parti, basato su rigide regole matematiche. Se mancano, il mondo va sotto sopra e si torna alla confusione primigenia, al “Kaos”. Pensate adesso alla parolaccia di prima, kalokagathìa, ovvero bello e buono: ciò che è bello è armonioso e bilanciato, quindi è buono (sia in senso morale che fisico). Ecco dunque qual è la prima vera arte per l’antica Grecia: non la musica, non l’arte, non il canto, ma la matematica, espressione massima della perfezione.
Torniamo adesso al nostro Policleto. Nato e cresciuto in questo contesto, voleva rendere le sue statue perfette, armoniche, ma allo stesso tempo reali: l’immobilità non appartiene alla vita, quindi perché rappresentare un soggetto vivo e vegeto, quindi in movimento, immobile come una pietra? Già ci pensa il marmo… Però per fare questo era necessario studiare e capire le proporzioni (e le dimensioni) da usare, sia tra le parti, che rispetto al tutto.
Ecco allora che gli venne commissionata la statua di un portatore di lancia e nella mente del nostro scattò qualcosa: mise in fila gli uomini e, metro alla mano (anzi, piede alla mano, visto che quella era l’unità di misura di base, pari a circa 30 cm), iniziò a misurare. Appuntò poi le sue scoperte teoriche in un trattato, a noi noto solo per accenni di altri autori, che prese il nome di “Canone” (o “Kànon”, che traduciamo come “Regola”) e le sue scoperte pratiche in una statua, il Doriforo.
Fu scandalo: per la prima volta uno scultore era riuscito a unire in una stessa opera la realtà del soggetto con la realtà del movimento. Da allora in avanti tutti gli artisti, a qualsiasi disciplina essi appartenessero, presero lui da esempio e modello per le loro creazioni, al punto che nonostante siano passati oltre mille anni, ancora se ne parla…
Sapete qual è l’ironia di tutta questa storia? Di quanto abbia scritto e di quanto abbia scolpito di suo pugno, tutto è andato perduto.
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