Roma e Medea, due opere a confronto
di Beatrice Crescentini
Tra le esperienze più distruttive ma, a quanto pare, ineluttabili di cui l’uomo non può fare a meno c’è senza dubbio la guerra: un immane quanto inutile dispendio di risorse umane, materiali ed economiche in cui, parliamoci chiaro, alla fine tutti ne escono sconfitti. Se da un lato è vero che “il conflitto è padre di tutte le cose”, come diceva il filosofo greco Eraclito nella Grecia del lontano V secolo a.C., dall’altro è altrettanto vero che una guerra non è mai la soluzione. Ecco allora perché, sfruttando l’occasione un po’ del Giorno del Ricordo (10 febbraio), da poco trascorso, in memoria delle vittime delle Foibe e dell’esodo giuliano, un po’ della regione che questo mese ospita la nostra passeggiata in giro per l’Italia (della rubrica “Travel”), abbiamo deciso di mettere a confronto due monumenti concepiti a quasi 2000 anni l’uno dall’altro con uno scopo in comune: celebrare la pace.
Correva l’anno…
13 a.C., durante il quale il Senato di Roma commissionò un monumento che celebrasse la pace finalmente raggiunta dall’imperatore Augusto, ormai cinquantenne, dopo le campagne di Gallia e Spagna. Era ufficialmente la fine di tutto il bagno di sangue che aveva dovuto subire la città almeno in quegli ultimi cento anni: i nemici interni erano già stati sconfitti con la morte dei cesaricidi prima e con quella di Antonio e Cleopatra poi; i nemici esterni, con le ultime vittoriose campagne dell’imperatore e dei suoi uomini erano sconfitti. Regnava la pace dall’estremità orientale a quella occidentale del Mare Nostrum (come allora veniva chiamato il Mediterraneo) e ringraziando gli dei le porte del tempio di Giano erano chiuse, forse per sempre.
Grazie alla figura del Princeps, nella persona fisica proprio di Cesare Ottaviano, detto Augusto, Roma ha il suo campione, colui che, primus inter pares (ovvero letteralmente “primo tra pari”), può difenderne i confini, il popolo, la sua unità e la sua costituzione repubblicana. Che poi, di repubblicano all’epoca a Roma era rimasto solo il nome, ma vabbè…
Ecco allora che per festeggiare la Pax Augustea, nelle vesti di nume protettore dell’impero, il Senato decise di erigere un vero e propria ara e “dispose che in essa i magistrati, i sacerdoti e le vergini vestali celebrassero un sacrificio annuale.” (Res Gestae Divi Augusti, 12-2)
Nel 9 a.C. l’Ara Pacis Augustae viene inaugurata
Quattro anni dopo il monumento, finalmente pronto, venne inaugurato alla presenza non solo del princeps, ma anche della sua famiglia e delle più alte cariche politiche e religiose dello Stato. Dal punto di vista estetico, il monumento è così composto: un podio quasi quadrato di marmo, con due accessi lungo i lati corti, circondato da un recinto anch’esso in marmo, che racchiude al suo interno l’ara vera e propria. Bassorilievi, fregi e colori rendevano l’opera davvero imponente. Tutti i soggetti rappresentati (dalla nascita di Roma, ai Lupercali, ai membri della processione) sono ritratti per immortalare e magnificare la pace, l’armonia e la prosperità che Roma ha finalmente raggiunto.
All’interno del recinto troviamo l’altare vero e proprio, che occupa quasi tutto lo spazio a disposizione, con scene riferibili a un sacrificio, forse proprio quello che il Senato voleva celebrare ogni 30 gennaio. A chiudere lateralmente il piano d’altare, la cosiddetta mensa, troviamo due sponde decorate con acroteri vegetali e volute alate.
Corriamo avanti fino all’anno…
1951, quando non più la sola Roma, ma il mondo intero era ancora sotto shock per ciò che era stato fatto durante la Seconda Guerra Mondiale, finita da neanche 10 anni. Non più il Senato, ma un comitato nazionale, composto dalle principali associazioni di ex combattenti e dalla Pontificia Commissione di Assistenza, pensò che fosse venuto il momento di erigere un secondo altare, per celebrare la pace così a caro prezzo riconquistata, senza scordarsi di coloro che avevano sacrificato il bene più prezioso: la vita. Nacque così il progetto dell’Ara Pacis Mundi, con la speranza che si aprisse un lungo periodo di pace e stabilità, come era stato per Roma sotto la Pax Augustea.
Odium parit mortem, vitam progignit amor
Ovvero: “l’odio produce morte, l’amore genera la vita”. È questo il messaggio affidato ad una semplice urna di bronzo e legno in cui sono custodite simbolicamente le zolle di terra provenienti da tutti i sacrari militari, sia italiani che stranieri, presenti nel nostro paese. Avete idea di quanti sono? 800.
A protezione di questa urna troviamo l’altare vero e proprio, in porfido della Val Camonica, ben più imponente della versione antica: 3 metri di lunghezza per 5 di altezza, contro i neanche 4 di altezza totale del recinto dell’Ara Pacis Augustae (l’altare ovviamente è più piccolo). L’intera costruzione, compreso il colonnato esterno in marmo travertino copre un’area di 1500 metri quadrati e fu terminata in appena 6 mesi.
Dove si trova? Nel piccolo comune di Medea, in provincia di Gorizia, e sorge su una collina di neanche 150 metri di dislivello.
A questo punto sorge spontanea una domanda: se abbiamo migliaia di esempi, centinaia di monumenti, milioni di carte in merito che pregano in ginocchio le generazioni future di evitare il più possibile la guerra e la violenza, perché ogni volta dobbiamo ricascarci, per di più con esiti sempre più nefasti?
Ce lo dicono a una voce l’Ara Pacis Augustae e l’Ara Pacis Mundi: è la pace che genera vita, non la guerra!
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