La recensione del reboot di Denis Villeneuve
di Valerio Brandi
Un film atteso in tutto il mondo, e questa volta l’Italia ha dovuto aspettare meno del solito: questo perché Dune 2021 è stato prima presentato, fuori concorso ma in in anteprima mondiale, alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e poi distribuito nei cinema del nostro Paese a partire da giovedì 16 settembre 2021, più di una settimana in anticipo rispetto alle sale statunitensi.
Diretto da Denis Villeneuve, il lungometraggio è basato sul primo libro della saga di Dune, scritta da Frank Herbert tra il 1965 e il 1985, oltre ad essere il reboot del film del 1984, diretto dall’emblematico David Lynch.
Anno 10191. L’Universo conosciuto è retto politicamente ed economicamente dal sistema monarchico feudale del Landsraad, con in cima alla piramide l’Imperatore Padishah Shaddam IV.
Il più importante pianeta di questo sistema è Arrakis, conosciuto anche con il nome di Dune. Cosa ha di così fondamentale un mondo circondato in tutto e per tutto non solo da sabbia, ma anche da giganteschi vermi alieni? La Spezia, una sorta di Pietra Filosofale, perché allunga la vita, espande la conoscenza ed è il miglior combustibile per le astronavi spaziali della Gilda. Chi controlla Arrakis è dunque il più potente dell’Universo dopo l’Imperatore, per questo le grandi casate della Gilda continuano millennio dopo millennio a contenderselo, con mezzi più o meno leciti. E quando Shaddam IV decide di togliere il controllo di Dune alla casata Harkonnen per affidarlo ai nobili membri della famiglia Atreides, una guerra tra di loro sembra purtroppo inevitabile.
Così come per Blade Runner, altro cult degli anni ’80 riproposto al cinema da Denis Villeneuve, anche questo nuovo Dune va paragonato per forza di cose al suo predecessore.
Rispetto al capolavoro di Ridley Scott, che non andava toccato non solo per la bellezza artistica della pellicola, ma per il perfetto finale aperto che ha reso indimenticabile la storia, quello di David Lynch è risultato un film incompleto per quel che riguarda il minutaggio a lui dedicato. Il lavoro del 1984 è stato decisamente tagliato nel montaggio finale, risultando dunque una storia molto complessa da capire a chi non aveva letto il libro prima della sua visione.
Un errore che non è stato ripetuto dal regista canadese, che non ha inserito in 137’ il primo libro e parte dei successivi, ma ne ha dedicati 155 solo per il romanzo iniziale, e il risultato, dal punto di vista della narrazione, è stato decisamente positivo.
In trentasette anni gli effetti speciali cinematografici sono naturalmente migliorati, e inoltre Villenueve non ha badato a spese nel realizzarli. Il risultato è decisamente ottimale per gli occhi, con una computer grafica senza alcuna sbavatura, e a guadagnarne non sono solo gli scudi protettivi, o i poteri del barone Vladimir Harkonnen, ma soprattutto i vermi delle sabbie, mostrati dopo una lunghissima attesa, come nel film di Lynch. E chi ha visto quest’ultimo, sa bene che il meglio su di loro deve ancora venire.
Dune 2021 può inoltre contare su un doppiaggio italiano veramente superbo, dato che hanno partecipato professionisti giovani, ma già super affermati, come Alex Polidori ed Emanuela Ionica, esperti del mestiere come Gabriele Sabatini, Gaia Bolognesi, Andrea Lavagnino, Laura Romano, Francesco De Francesco, e meravigliosi veterani come Melina Martello, Ennio Coltorti, Rodolfo Bianchi, Roberto Pedicini, Antonella Giannini ed Antonio Sanna.
Diversi elementi positivi che però non rendono Dune 2021 un film perfettamente riuscito.
Se da una parte abbiamo una narrazione più scorrevole e comprensibile, dall’altra abbiamo perso tutta quell’atmosfera misteriosa e mistica che ha sempre accompagnato le opere di David Lynch. E nel caso di Dune 1984, l’esposizione al pubblico dei pensieri dei protagonisti, che facevano decisamente immedesimare lo spettatore nelle loro vicende. I costumi, gli apparecchi futuristici e le ambientazioni del 1984 erano a volte un po’ grezze, ma decisamente innovative per l’epoca, mentre quelle di Villenueve, per quanto ben definite, sembrano quasi tutte copiate dagli ultimi capitoli di Guerre Stellari, così come alcune riprese. Chi non vedrà nell’entrata in scena del barone Harkonnen (interpretato da Stellan Skarsgård) una ristampa di quelle riguardanti Darth Vader, o del Leader Supremo Snoke?
Non va neanche troppo bene il ritmo, decisamente pesante per gran parte del lungometraggio, e incredibile ma vero, per una volta questo problema riguarda anche le musiche di Hans Zimmer.
E che dire del nuovo cast? Rispetto agli anni ’80, solo Rebecca Ferguson può definirsi pari alla sua controparte, mentre Jason Momoa è molto più convincente di Richard Jordan nel ruolo di Duncan Idaho.
Per il resto, oltre ai soliti cambiamenti di etnia e di sesso che manomettono la veridicità dell’opera originale, i nuovi volti non reggono il confronto con Kyle MacLachlan, Jürgen Prochnow, Kenneth McMillan, Max von Sydow, Sean Young e Patrick Stewart. Su tutti proprio il protagonista, Timothée Chalamet, che non ha certo il fisico per interpretare un guerriero rivoluzionario, che usa ancora le tecniche di scherma e non solo le armi da fuoco.
Si poteva fare di più, insomma, e la maggior parte di questi difetti torneranno per forza di cose nella seconda parte, ma aspettiamo di vederlo, per dire la nostra…
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